L’ITIS adotta uno scrittore

Espérance Hakuzwimana Ripanti è stata adottata dall’Istituto di Istruzione Superiore Quintino Sella di Biella

Quando mi sono seduta a una scrivania per scrivere E poi basta – Manifesto di una donna nera italiana  prefigurato e immaginato con ansia e gioia i miei possibili lettori. L’ho fatto in uno slancio spontaneo e carico di preconcetti che mano a mano, una volta andato in stampa, pubblicato e distribuito, si sono disintegrati davanti ai veri lettori del mio testo. Quelli che il mio libro e la parte della mia storia l’hanno comprata e letta per davvero; perché erano curiosi, interessati o semplicemente perché gli è capitato.

Dico questo perché nel momento esatto in cui mi è stato proposto di partecipare alla straordinaria iniziativa di “Adotta uno scrittore”, inevitabile per me è stato compiere lo stesso identico errore fatto all’uscita del mio primo libro. Così, noncurante e convinta delle mie idee, mi sono immaginata una classe, un ambiente e un’esperienza chiare e gratificanti. Invece, la sorpresa più grande si celava dietro a un inaspettato gemellaggio.
«Sono stata assegnata a una classe di un istituto tecnico» raccontavo agli amici, ai conoscenti. «Sarà una bella esperienza!» mi rispondevano e dentro mi montava un terrore senza pari.
«Ma loro sono tutti maschi!» esclamavo con una nota di disperazione agli amici e alle amiche che mi chiedevano se mi fossi preparata. Sono tutti maschi – pensavo – e io non so come raccontarglielo cosa sono e come sono diventata quello che sono.
Poi, per fortuna, un appiglio l’ho trovato nella voce e negli occhi buoni della docente di italiano Alessandra Garella. Un’anima salda nelle radici di quel tipo di insegnamento che ho incontrato e sfiorato nei miei anni di scuola. Ritrovarlo così è stato salvifico ma prima di tutto utile.
Garella mi ha presentato i suoi ragazzi chiarendomi subito che non fossero “così appassionati di letteratura” come magari speravo. Lo ha fatto con delicatezza e con un senso di protezione nei miei confronti molto bello, ammirevole. Mi ha spiegato la realtà del Quintino Sella di Biella e mi ha mostrato a parole cosa significa essere un’insegnante di italiano in una scuola in cui la meccanica, la tecnologia e i motori la fanno da padrone.  Poi, insieme, siamo entrate in classe. E la paura è svanita davanti a quelli che avevo pensato potessero essere alieni e invece sono subito stati ragazzi, studenti educatissimi ed estremamente disponibili all’ascolto.
Se c’è una cosa che mi è rimasta impressa dalla classe da cui sono stata adottata è stato proprio l’ascolto. Un’attenzione densa che si è trasformata in poche domande che mi hanno (segretamente) spiazzata e che hanno aperto alcuni dibattiti importanti. Come lo era per me, usare il mio testo come pretesto per scoprire mondi o aprire squarci.
Il presente, l’attualità ci hanno aiutato tanto. Se c’è una cosa per cui ho sofferto è stata  l’impossibilità di stare nella stessa stanza coi 23 ragazzi; per vedere i loro volti e percepire le loro emozioni. Però, la pandemia del Covid-19, che ha messo le distanze dappertutto e ha aggiunto muri e paure dove non c’erano, alcune cose non le ha fermate. E mi vengono in mente la grinta e all’orgoglio che ho sentito in alcune considerazioni espresse con chiarezza, o il desiderio di scavare, andare a fondo prendendosi le proprie responsabilità sul presente che abitiamo e costruiamo tutti.
Abbiamo parlato di cittadinanza e di ius soli, di percezione della migrazione in una città di Biella, di Willy Monteiro, delle elezioni degli Stati Uniti e di Kamala Harris, della narrazione che i media fanno del corpo nero e anche di cosa, essendo donna, nel lavoro, a casa e nella vita di tutti giorni si rischia di subire e si deve combattere.
È stato bello uscire dall’aula (reale e digitale) con la certezza che tante mie idee, convinzioni si fossero sgretolate ogni volta che un alunno mi ha fatto una domanda, che una conversazione si è accesa e il mio libro è stato anche solo sfogliato, commentato. Spesso una cosa che ci si dimentica dell’adozione – e lo dico solo perché ho vissuto quella classica in prima persona – è che a scegliersi, a conoscersi e a imparare ad amarsi, a farsi spazio uno nella vita dell’altro, è una cosa che bisogna fare da entrambe le parti. E mi piace pensare e sperare, magari anche credere che, se questi ragazzi hanno lasciato a me un nuovo modo di vedere le cose – più spontaneo, con meno costrutti e più fresco e libero – in qualche modo anche il mio libro, le parole che ho lasciato tra la cattedra e gli schermi, possano essere serviti a qualcosa di piccolo. Che però da qualche parte, tra i fogli e un’adozione, rimane.

Quando mi sono seduta a una scrivania per scrivere “E poi basta – Manifesto di una donna nera italiana” prefigurato e immaginato con ansia e gioia i miei possibili lettori. L’ho fatto in uno slancio spontaneo e carico di preconcetti che mano a mano, una volta andato in stampa, pubblicato e distribuito, si sono disintegrati davanti ai veri lettori del mio testo. Quelli che il mio libro e la parte della mia storia l’hanno comprata e letta per davvero; perché erano curiosi, interessati o semplicemente perché gli è capitato.
Dico questo perché nel momento esatto in cui mi è stato proposto di partecipare alla straordinaria iniziativa di “Adotta uno scrittore”, inevitabile per me è stato compiere lo stesso identico errore fatto all’uscita del mio primo libro. Così, noncurante e convinta delle mie idee, mi sono immaginata una classe, un ambiente e un’esperienza chiare e gratificanti. Invece, la sorpresa più grande si celava dietro a un inaspettato gemellaggio.
«Sono stata assegnata a una classe di un istituto tecnico» raccontavo agli amici, ai conoscenti. «Sarà una bella esperienza!» mi rispondevano e dentro mi montava un terrore senza pari.
«Ma loro sono tutti maschi!» esclamavo con una nota di disperazione agli amici e alle amiche che mi chiedevano se mi fossi preparata. Sono tutti maschi – pensavo – e io non so come raccontarglielo cosa sono e come sono diventata quello che sono.
Poi, per fortuna, un appiglio l’ho trovato nella voce e negli occhi buoni della docente di italiano Alessandra Garella. Un’anima salda nelle radici di quel tipo di insegnamento che ho incontrato e sfiorato nei miei anni di scuola. Ritrovarlo così è stato salvifico ma prima di tutto utile.
Garella mi ha presentato i suoi ragazzi chiarendomi subito che non fossero “così appassionati di letteratura” come magari speravo. Lo ha fatto con delicatezza e con un senso di protezione nei miei confronti molto bello, ammirevole. Mi ha spiegato la realtà del Quintino Sella di Biella e mi ha mostrato a parole cosa significa essere un’insegnante di italiano in una scuola in cui la meccanica, la tecnologia e i motori la fanno da padrone.  Poi, insieme, siamo entrate in classe. E la paura è svanita davanti a quelli che avevo pensato potessero essere alieni e invece sono subito stati ragazzi, studenti educatissimi ed estremamente disponibili all’ascolto.
Se c’è una cosa che mi è rimasta impressa dalla classe da cui sono stata adottata è stato proprio l’ascolto. Un’attenzione densa che si è trasformata in poche domande che mi hanno (segretamente) spiazzata e che hanno aperto alcuni dibattiti importanti. Come lo era per me, usare il mio testo come pretesto per scoprire mondi o aprire squarci.
Il presente, l’attualità ci hanno aiutato tanto. Se c’è una cosa per cui ho sofferto è stata  l’impossibilità di stare nella stessa stanza coi 23 ragazzi; per vedere i loro volti e percepire le loro emozioni. Però, la pandemia del Covid-19, che ha messo le distanze dappertutto e ha aggiunto muri e paure dove non c’erano, alcune cose non le ha fermate. E mi vengono in mente la grinta e all’orgoglio che ho sentito in alcune considerazioni espresse con chiarezza, o il desiderio di scavare, andare a fondo prendendosi le proprie responsabilità sul presente che abitiamo e costruiamo tutti.
Abbiamo parlato di cittadinanza e di ius soli, di percezione della migrazione in una città di Biella, di Willy Monteiro, delle elezioni degli Stati Uniti e di Kamala Harris, della narrazione che i media fanno del corpo nero e anche di cosa, essendo donna, nel lavoro, a casa e nella vita di tutti giorni si rischia di subire e si deve combattere.
È stato bello uscire dall’aula (reale e digitale) con la certezza che tante mie idee, convinzioni si fossero sgretolate ogni volta che un alunno mi ha fatto una domanda, che una conversazione si è accesa e il mio libro è stato anche solo sfogliato, commentato. Spesso una cosa che ci si dimentica dell’adozione – e lo dico solo perché ho vissuto quella classica in prima persona – è che a scegliersi, a conoscersi e a imparare ad amarsi, a farsi spazio uno nella vita dell’altro, è una cosa che bisogna fare da entrambe le parti. E mi piace pensare e sperare, magari anche credere che, se questi ragazzi hanno lasciato a me un nuovo modo di vedere le cose – più spontaneo, con meno costrutti e più fresco e libero – in qualche modo anche il mio libro, le parole che ho lasciato tra la cattedra e gli schermi, possano essere serviti a qualcosa di piccolo. Che però da qualche parte, tra i fogli e un’adozione, rimane.

Espérance Hakuzwimana Ripanti