Cinque brevi articoli di recensione, cinque tentativi di circoscrivere, o perlomeno di dare una fisionomia, un nome, alla letteratura che in questi anni sta provando a raccontare la crisi. Ecco il lavoro che i cinque allievi del corso di eccellenza di quest’anno hanno provato ad abbozzare, leggendo, documentandosi, mettendo a frutto le proprie conoscenze di critica e storia letteraria, nonché le competenze di scrittura, maturate nel corso dei loro studi. Per fare ciò hanno dovuto addentrarsi nelle interpretazioni di questa crisi (crisi economica? Crisi di civiltà?), prendendo familiarità con concetti quali “società liquida”, “ipermodernità”, “narrazione distopica”. Hanno dovuto cioè divenire “critici letterari” e insieme interpreti storici e sociologici di un fenomeno nel quale sono immersi. E, leggendo le recensioni, sembra che il tentativo sia riuscito. A dei ragazzi diciottenni non si può chiedere molto di più. (Sergio Beltramo)
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FUTURO: LA SPERANZA È NEI SOGNI
di Alyssa Clemente (5 C CMB CBS)
Storia di una profonda amicizia: una provincia depressa popolata da operai siderurgici, adulti disillusi bruciati da troppe sconfitte e ragazzi che sognano la fuga. Questo è Acciaio (2010) il romanzo di Silvia Avallone .
Anna e Francesca si sono conosciute tra le case popolari assaporando le prime esperienze adolescenziali. I loro sogni sono oscurati dalla realtà. Provano a lottare ma la vita si mostra più forte di quello che si immaginavano, più feroce e spietata. La loro storia si complica quando incontrano l’amore, malgrado il quale la loro amicizia esce illesa. In fondo Acciaio è un romanzo di formazione: due ragazze vedono cambiare il proprio corpo, la propria mente, sullo sfondo di una Piombino ai margini del degrado.
Perché intorno ad Anna e Francesca vi è la crisi, l’inevitabile processo che solo la dismissione industriale può portare, il quale finisce per intrecciarsi con i rapporti adolescenziali e famigliari: e con la crisi arriva l’uso di droga, lo sperpero del proprio corpo, la paura del licenziamento. I ragazzi appaiono privi di illusioni e legami con il passato, sono disposti a bruciare in un presente precario tutta la loro vitalità.
L’Avallone ha colto quello che al mondo d’oggi viene tendenzialmente ignorato: il mondo operaio costretto a vivere nelle periferie colpite dalla miseria materiale e morale. Dunque, una storia di amicizia datata anni 2000, che rinnova una lunga tradizione di amicizie romanzesche, a partire da quella -anche essa contraddittoria e difficile- fra Rosso Malpelo e Ranocchio. Allora era la Sicilia misera dei minatori, in questo caso la Toscana della post industrializzazione, in una ipermodernità stanca e fatta di miti sbagliati. Un diverso tipo di miseria.
Dal punto di vista linguistico il romanzo non presenta particolari sperimentalismi. Il linguaggio è semplice e a tratti ironico, tutto incentrato sul parlato mimetico dell’esperienza quotidiana, con inserti del gergo giovanile nei dialoghi fra le protagoniste.
Il romanzo si conclude nella tipica forma romanzesca, lasciando ampio spazio all’immaginazione del lettore, così che, nonostante tutto, si può dedurre un finale a lieto fine.
RESISTERE NON SERVE A NIENTE
di Cecilia Debianchi (5 E LSSA)
Resistere non serve a niente (Rizzoli, Milano 2012) è l’ultimo libro di Walter Siti. Si tratta di un romanzo che esamina argomenti molto complessi e delicati, quale è la “zona grigia” tra finanza e criminalità, zona in cui anche un minimo errore o nome pronunciato in un contesto errato può mettere a repentaglio la vita di uno o più persone. Non è quindi un libro per lettori “deboli” speranzosi nel genere umano e che si sentono ottimisticamente padroni del proprio destino e artefici della propria ricchezza.
L’opera, ricca di termini usati nell’alta finanza, parla della vita di Tommaso Aricò -nome utilizzato per proteggere e mascherare la vera identità del protagonista, un ex obeso- e della sua drammatica storia di vittima e carnefice. Il tutto visto attraverso gli occhi e le esperienze dell’autore e mediante un testo fornitogli dal protagonista stesso. Quello che emerge non è però qualcosa di grezzo come la violenza fisica; piuttosto si vuole sottolineare il parallelismo fra mafia e i suoi clienti, fra carnefice e vittime . Tommaso entra in quest’organizzazione temuta da tutti attraverso il padre, anche lui vittima e capro espiatorio, in un processo favorito anche dalla debolezza psicologica legata al suo corpo e dal suo rapporto con il cibo. Grazie ad aiuti dall’alto riesce a diventare un famoso broker e ad accumulare molti soldi, anche se non dimentica le sue radici.
La tecnica narrativa utilizzata per rendere più realistica la vicenda è simile a quella di Svevo in “La coscienza di Zeno”: una meta-narrazione in cui il narratore-personaggio continua ad intervenire per esprimere il suo parere o ciò che è costretto a dire, confondendo i lettori su chi sia il vero protagonista, se Tommaso o Walter Siti. In questo romanzo è presente come sfondo la crisi, di cui fornisce un documento: e non solo la “crisi”emotiva di Aricò, il cui picco è lo “stupro organizzato” di una bambina di dodici anni. Coesiste anche una crisi finanziaria rilevabile negli accenni ai problemi in Grecia, alla crisi bancaria in America nel primo decennio del 2000. Infine, come si è anticipato, è presente la crisi morale, che può essere rappresentata appieno con la frase “Non si scrive quello che si vuole, si scrive quello che si può”. Ragionandoci bene e sostituendo la parola “scrive” con “fare” otteniamo la frase che spiega al meglio la difficoltà di intervenire sul mondo di oggi. Come dice Siti, sulla scorta del discorso di due mafiosi, questa organizzazione non si trova più nelle campagne arretrate del sud, ma padroneggia il mondo attraverso la finanza: è ella stessa a decidere il proseguimento, la crescita o il fallimento delle azioni in borsa. Messa in questo modo, l’opera sembra avere un contenuto distopico. Ma cos’è diventato il mondo oggi, se non un avvicinamento all’idea di distopia? Un mondo dove la moneta di scambio non è più solo quella in carta o in ferro, dove anche il corpo è diventato una merce usata dalle persone stesse per decollare nella carriera o per arricchirsi,o usata per pagare politici e avere il loro appoggio -dinamica descritta in quattro illuminanti pagine all’inizio del libro-. In cui tutta la verità, o quasi, ci viene nascosta perché pericolosa non solo a livello fisico, ma anche a livello psicologico. La domanda che ora possiamo porci è: come si possono cambiare le cose evitando il potere della criminalità, se appena qualcuno ci prova realmente viene fatto sparire?
DELIRIO DI IMMOBILITA’
(fotografie ipermoderne)
di Davide Fadda (5 C LSSA)
Che ruolo ha la società nel portare a compimento i nostri sogni?
Quante possibilità di carriera riescono ad immaginarsi un gruppo di neolaureati e dottorandi in una città di provincia?
Quanto, la società odierna si preoccupa di valorizzare la più qualificata gioventù nella fase di sbocco nel mondo lavorativo?
Questo è quello che prova a spiegare Francesco Targhetta, nel romanzo Perciò veniamo bene nelle fotografie (2012): con quest’opera di non sempre facile lettura l’autore offre una precisa descrizione di alcuni status generazionali. I protagonisti sono vittime dello scontro con una realtà di precarizzazione del proprio ruolo, mentre la consapevolezza di essere immersi in una montaliana “immobilità”, procura loro la vertigine del delirio, l’ossessione per l’abisso; tutto si muove ma rimane fatalmente immobile: per questo “veniamo bene nelle fotografie”.
Nel racconto si percepisce un incepparsi nel rapporto tra le potenzialità e la successiva possibilità di “infuturamento” per i protagonisti. Questa sembra essere la condizione di precarizzazione teorizzata dal filosofo Bauman e definita “società liquida”.
La trama -se trama si può definire- si inserisce nei contesti più dismessi del Veneto di oggi tra le città di Treviso, Padova : le vicende appaiono infatti confuse e senza apparenti direzioni, per meglio delineare il sentimenti di impotenza e di ansia dei personaggi nei confronti dell’enorme punto di domanda sulle possibilità della loro autorealizzazione.
Il mondo interiore del protagonista ci viene esplicato pagina dopo pagina: l’alter ego dello scrittore è al limite della depressione, alle prese con la transizione apparentemente impossibile oltre il mondo dell’università e del dottorato. La Padova delle vie sporche e degli appartamenti studenteschi a basso prezzo, i discount con gli immigrati a margine della città e della società, le fermate degli autobus in periferia, il Veneto “razzistello” delle vecchiette sospettose e arcigne, non sono di aiuto. L’autore propone, attraverso una narrazione di tipo corale e diegetica, numerose descrizioni di atmosfere di sfascio e dismissione; dismissione che -vien da pensare- sia l’unico scopo dello scrittore : a partire dalle notti brave dei protagonisti, finite a vomitare letteralmente la cena ed i pensieri. Tutto per resistere qualche giorno in più al call center.
Lo stile di scrittura, ibridamente poetico, si avvale dell’uso di lasse, simbolo di uno sperimentalismo fossilizzato, colmo di ossimori, che finisce per diventare antitetico rispetto alle questioni del tutto “ipermoderne” che l’opera propone.
La narrazione ha però un’incisività tale da poter essere estesa metaforicamente al mondo, alla Padova di ognuno di noi, facendoci accorgere di essere tutti parte di una grande immobilità, di una grande fotografia.
L’AZIENDA DIVORA I SUOI FIGLI
Considerazioni su Nessuno è indispensabile di Peppe Fiore
di Marta Morandini (5 D LSSA)
Lucia Frangipani, Ciancaleone, Sicoli e Augusto Sgueglia sono i colleghi che solo fino a un certo punto vengono considerati persone (“per questo si chiamano risorse umane”) nel romanzo di Peppe Fiore. Pochi nomi che rimarranno nella vita di Michele Gervasini e di tutti quelli che li hanno conosciuti per un semplice e banalissimo gesto: l’essersi tolta la vita. Vite apparentemente tranquille e senza preoccupazioni, senza una ragione per uccidersi: ma “se lo si cerca, in fondo un motivo lo si trova sempre”. I suicidi di queste quattro persone non sono affatto paragonabili ai classici e titanici suicidi come quello del Giovane Werther o di Anna Karenina. Le motivazioni o l’atto del suicidio sono più che altro un espediente letterario che fa scaturire la trama, come afferma l’autore stesso. Il vero interesse, per lo scrittore, è lo studio dell’uomo che decide liberamente di rendersi schiavo per lavorare, in questo caso in un’azienda romana produttrice di latte e derivati (“la terza in Italia!”) con tanto di statua in vetroresina raffigurante una mucca nel centro del cortile, simbolo della solidità a cui un’azienda alimentare in tempo di crisi non deve rinunciare. La crisi è infatti solo motivo di sfondo, niente più che un sentito dire, una voce in lontananza per una solida impresa come la Montefoschi.
La vicenda si srotola nelle mani del protagonista, Michele Gervasini, che dipendente a tempo indeterminato da otto anni nell’azienda, nel giro di poche settimane deve iniziare a dubitare e riflettere su tutto. Si può pensare ad uno stile televisivo con un incipit simile ad uno spot pubblicitario, che utilizza un linguaggio di facile comprensione. Per l’autore l’importante non sembra essere una critica di fondo verso la società e il lavoro ma piuttosto una narrazione mediatica che riporta, copia la realtà, secondo i canoni di certa letteratura “ipermoderna”. Ogni tanto la narrazione viene interrotta per inserire -quasi una sorta di link- un racconto all’interno del romanzo, proprio come accade per il collega e amico Enrico Pigafetta, ex drogato ora ossessionato da bustine multivitaminiche scoperte sul web.
La citazione che si legge in copertina (“I colleghi sono persone fino a un certo punto”) racchiude quindi forse il vero messaggio: considerando i colleghi come persone rischiamo di ritrovarci più confusi perdendoli. Perché l’azienda, come nei romanzi del boom industriale di Bianciardi, Parise e Volponi, divorerà la propria “famiglia”.
Ma se quella di Gervasini non fosse che la nostra condizione, di chi dalla vita non ha avuto altro che incertezze e infelicità? La condizione di un uomo che riesce ad innamorarsi troppo tardi di una ragazza che dopo averlo scaricato si dà fuoco?
L’APOCALISSE SECONDO PINCIO
CINECITTÀ: Memorie del mio delitto efferato
di Francesca Nofri (5 E LSSA)
Cinacittà: già il titolo subito allude ai due nuclei tematici su cui gioca la narrazione, sospinta in una leggerezza che sciorina quasi senza parere un sapientissimo gioco di flashback e anticipazioni, in bilico tra le ossessioni dell’autore e la sua invidiabile capacitá di scandagliare i fondali dell’animo umano. Il narratore ci parla da un futuro vicino, in un tono al contempo rassegnato e scanzonato, in una lingua che non sale mai di tono ma nemmeno si abbassa, parca di immagini e del tutto priva di metafore. Frasi brevi, incisive, periodi nominali: un respiro quasi cinematografico -fra postmoderno e ipermoderno- incalza la narrazione, che altro non è se non il monologo del protagonista stesso.
L’azione si svolge a Roma, una Roma futuribile ma neanche tanto. Da tre anni non c’è più l’inverno, il Tevere è ridotto a una discarica melmosa, si vive di notte come i vampiri perchè di giorno la temperatura tocca i cinquanta gradi, per le strade non si vede più un italiano perchè la città è stata invasa dai cinesi, che prosperano dopo che gli abitanti si sono trasferiti in massa al Nord: sono rimasti solo gli spostati, i derelitti, quelli che non hanno più nulla da aspettarsi e da temere. Come il protagonista, che ad andarsene non ci pensa nemmeno, e se la passa bene come non se l’è mai passata in vita sua: non lavora, ha ridotto al minimo le spese, le pretese, i desideri, e campa centellinando con scrupolo da ragioniere la liquidazione del suo ultimo lavoro. Gli basta poco: ravioli cinesi a un chiosco e una birra al gogo-bar vicino a Piazza Vittorio. Da bambino amava la fantascienza perchè prometteva la fine del mondo, ora è arrivata e lui si trova benissimo. Quella che leggiamo si rivela essere la sua autobiografia scritta dal carcere, dove sconta l’ergastolo con l’accusa di aver ucciso la sua amante.
È innocente, lo hanno incastrato? Non importa, difendersi non serve, e poi chi gli crederebbe dopo che lo hanno trovato rinchiuso nella sua stanza accanto al cadavere di lei? Accetta, che il suo avvocato ci provi pure, a scagionarlo, a lui non interessa. Dove potrebbe andare? A quale passato o a quale futuro potrebbe far ritorno?
Ed è qui che sta il nucleo dell’opera, il suo cuore pulsante: l’ignavia consapevole, la percezione che non è tanto il mondo o la storia ad aver raggiunto il capolinea, sei tu che sei finito, che hai toccato il fondo dell’umano. In questa Roma che è più Gotham City, degrado fatto luogo che città reale, l’apocalisse diviene uno stato mentale, quasi una nuova categoria dell’esistenza umana. Anzi: “l’Eterna ridotta ad un troiaio”, la crisi ambientale, l’epidemia, l’invasione dei “barbari del terzo millennio” ci presentano uno scenario che ha più del parodistico che del distopico, che quasi pare un patchwork delle nostre più tipiche paure, una caricatura del presente prima ancora che un apocalisse credibile. Da questa massa di elementi iperbolici spira uno strano senso di pace, di compimento: qui sta la verità che penetra la finzione narrativa, e che è rivelata nell’atteggiamento del protagonista, nella sua serena e disperata rassegnazione. Non provarci nemmeno, assentire senza riserve al proprio fallimento, puntare a perdere con la cieca tenacia testarda di una tenia: ecco l’apocalisse secondo Pincio.