Il ruolo dello sport come mezzo di integrazione sociale, in particolare per i giovani, è ampiamente riconosciuto. Lo sport è, infatti, un fenomeno in grado di offrire un linguaggio comune e una piattaforma per sviluppare condizioni democratiche. Proprio grazie allo sport, dagli anni ‘40 in avanti, è stata possibile, soprattutto in America, una sempre maggiore integrazione capillare, che ormai, oggi, si è finalmente estesa a tutti gli aspetti della vita sociale; tutti o quasi, perché è molto difficile sradicare in maniera definitiva la piaga delle disuguaglianze.
I movimenti per i diritti civili, nati principalmente durante gli anni ‘60 e ‘70, trovano le loro radici nelle palestre e nei campi da gioco. Lo sport è il microcosmo della società e, una volta che gli attivisti riconobbero questa sua grande potenzialità, furono in grado di utilizzarlo come strumento di promozione.
Negli anni che precedono la Seconda guerra mondiale, era vietata la partecipazione a sport professionistici agli atleti di colore. Solo nelle Olimpiadi, per la loro natura internazionale, era permesso loro di competere. La spinta che avrebbe poi portato alla completa emancipazione delle persone di colore e quindi a essere finalmente riconosciuti eguali ai bianchi costituzionalmente è da ricercarsi proprio nell’ambito sportivo.
La stagione di baseball 1947-1948 si aprì con Jackie Robinson, il primo afro-americano in Major League. L’atleta fu in grado di catturare il cuore degli americani e diventare un simbolo contro la differenziazione razziale. Nonostante solo Jackie abbia riscontrato questo incredibile successo, già dall’anno prima l’NBA aveva ammesso nel suo campionato due giocatori di colore. Durante gli anni ‘50 tutti gli sport professionistici furono integrati e la televisione, che proprio in quegli anni vedeva la sua espansione, portò l’integrazione nelle case di tutta l’America e del mondo.
Questa improvvisa apertura di orizzonti, però, non fu solo frutto di una mentalità più elastica rispetto ad anni prima: le federazioni agirono soprattutto per le loro esigenze e per il profitto. Quando le prime squadre iniziarono a inglobare atleti di colore, gli altri team poterono constatare nel campo le grandi capacità atletiche di questi atleti. Per non restare indietro con i tempi e soprattutto per evitare un eccessivo dislivello nella competizione, anche le squadre più restie consentirono l’ingresso degli atleti di colore, che, come avevano predetto le federazioni, rendevano il gioco più coinvolgente e spettacolare.
Lo sport divenne, pertanto, un mezzo per le persone di colore per emergere come figure pubbliche, ispirando il resto della comunità nera a combattere per i loro diritti. Il Movimento per i diritti civili degli afro-americani era già in azione dagli anni ‘50, ma fu dopo il 1960 che raggiunse il suo apice. Dal 1955 al 1968, atti di protesta non violenta e disobbedienza civile produssero situazioni di crisi e produttivi dialoghi tra attivisti e autorità governative. In questi anni spicca una delle figure più importanti della storia contemporanea, un pastore protestante appena trentenne: Martin Luther King Jr. Nel 1963 guidò una grande marcia pacifica per i diritti civili a Washington conosciuta come “marcia per la libertà”. Ispirato da Thurman e Gandhi, Martin credeva nell’importanza di combattere per la giustizia senza l’uso della violenza.
Come il movimento per i diritti civili andava crescendo, gli afro-americani non poterono più accontentarsi di rivestire una qualche importanza solo nel mondo sportivo e rivendicarono una maggiore partecipazione politica e civile in un Paese che, pur eleggendosi come difensore della democrazia contro i caratteri dittatoriali e totalitaristi, allo stesso momento era uno dei pochi Paesi al mondo dove la società era così marcatamente razzista; per di più questa disuguaglianza era accettata, e anzi difesa, dal governo centrale.
Alle Olimpiadi del 1968, lo stesso anno in cui King fu assassinato, John Carlos e Tommy Smith usarono il podio ottenuto nei 200 metri per tenere una protesta contro il razzismo. Durante l’inno nazionale, entrambi gli atleti abbassarono il capo e alzarono il pugno in aria, un saluto simbolico del potere nero. Carlos e Smith furono immediatamente rimossi dalla squadra statunitense e mandati a casa appena finita la cerimonia.
Un’altra importante figura del periodo fu Muhammad Alì. Nel 1967 fu privato del suo titolo di campione dei pesi massimi perché rifiutò di combattere nella guerra in Vietnam. Il caso fu portato alla Corte Suprema poiché altri atleti si erano rifiutati di arruolarsi nella guerra, ma a questi, tutti rigorosamente di carnagione chiara, non fu ritirato alcun titolo sportivo. Tre anni dopo l’avvenimento, Alì riebbe il suo titolo.
Non fu una battaglia semplice e veloce, ma alla fine, dopo scontri verbali e fisici, nonostante il freno tirato delle autorità, la parola “uguaglianza” non era più un principio meramente formale sancito dalla Costituzione, ma conquistò importanza sostanziale e quindi il diritto di essere ricercata, attraverso i mezzi governativi, dallo Stato.
Questa lotta è solo un esempio di migliaia di scontri per l’uguaglianza e l’emancipazione di gruppi minoritari o sottomessi. Basta pensare alle rivendicazione di diritti per le donne, per gli immigrati, per la comunità LGBT, per i disabili. Tutte lotte che ancora oggi non si sono concluse, ma trovano nello sport un importante mezzo per portare avanti battaglie di civiltà, con grandi risultati.
Davide Gariazzo, 5A LSSP