Scrivere è sempre stato parte della mia vita, da quando scrivevo le letterine a mia madre dopo scuola, passando alle prime lettere d’amore delle medie, alle poesie che ricalcavano lo stile del Petrarca – le mie quattordici poesie tutte intitolate Francesca – e tanti altri piccoli racconti, passando per progetti più vasti: le decine di tentativi di comporre dei romanzi, tutti incompiuti, tranne quello completato all’età di dieci anni, che mi rendeva tanto fiero anche se altro non era lungo che una ventina di pagine. Da che io ricordi, ho sempre scritto, o perlomeno ci ho sempre provato, disseminando camera mia (e, in tempi più recenti, la memoria del mio PC) di scarabocchi, idee mai del tutto sviluppate: ho persino una nota, sul mio cellulare, in cui scrivo tutte le frasi belle che poi potrei inserire nel racconto che sto tentando di scrivere da settembre. Le annoto soltanto, poi non le leggo mai.
Questo perché è immensamente difficile portare avanti la stesura di una stessa storia nel tempo: i libri sono un magnifico viaggio nel tempo, sia per lo scrittore, perché colui che porta a termine l’opera non è mai lo stesso che l’ha cominciata, sia per il lettore, che vive il tempo proprio della storia, ma anche quello che gli è necessario per portare a termine la lettura, risultando così che colui che termina di leggere un libro non è mai lo stesso che lo ha iniziato. Questo legame con il tempo è vario, in relazione alla dimensione del libro, alla sua scorrevolezza, al nostro interesse e alla nostra fretta: ci vuole tempo per leggere o per scrivere un libro e soprattutto ci vuole calma. Una calma che, in special modo recentemente, un uomo ha sempre in minor quantità man mano che cresce, venendo sempre più immerso nella frenesia della vita moderna. Così, mentre la vita corre, fugge rapidissima tra studi numerosissimi e diversissimi tra loro, viaggi, corse del treno e dei pullman, chi decide di scrivere un libro deve fare i conti con la necessità di prendersi un momento per fermarsi, uscire dalla frenesia e, mentre tutto il mondo si muove, per andare piano; e questo è uno sforzo a cui molti di noi non sono più abituati.
E così può succedere che, sintomo di questa velocità che permea la condizione sociale in cui viviamo, spesso abbiamo mille idee che ci passano per la mente e alla fine finiamo per non concluderne alcuna.
Questo può essere scoraggiante per i giovani scrittori che, come me, hanno deciso di darsi a un’arte così antica e complessa, in un’epoca in cui, oltre al costante pensiero che “oramai sia già stato tutto scritto” e che “nulla resti da scrivere”, bisogna far fronte al fatto che nel nostro presente tutti scrivano (e pubblichino) di tutto e che la produzione letteraria sia diventata quasi un mercato e i libri merci tra le merci.
Sono entrato nella redazione del giornalino già un anno e mezzo fa e mi rendo conto di non aver mai parlato, fatta eccezione per un’intervista, di null’altro se non di me stesso nei miei articoli, un difetto, per certo, dovuto all’incredibile difficoltà di riuscire a parlare di qualcosa che io stesso non avessi interiorizzato antecedentemente, prima che io lo avessi reso parte di me; per una volta, quindi, non voglio parlare di me, ma di tutti i giovani scrittori che fanno i conti con questo contrasto metafisico tra l’impeto sociale nel mondo pubblico e la calma artistica nella sfera privata; a tutti coloro che vorrebbero lanciare la penna contro al muro convinti che ciò che fanno non valga nulla, a chiunque si senta scoraggiato dai blocchi, dagli stop che si incontrano per strada. Se scrivere significa soprattutto parlare di se stessi, allora significa anche parlare a se stessi: senz’altro la scrittura aiuta ciascuno di noi a mettere in comunicazione le diverse facce di sé e a comprendersi meglio: essa quindi non è mai un’azione completamente inutile.
In più, scrivere non è per tutti: la ricerca della calma necessaria alla scrittura richiede un’abilità che non si acquista che con il tempo; in più scrivere è ricerca, è attenzione, è cura, coerenza, pazienza. Coloro che riescono, nonostante tutto, a portare a compimento un’opera non sono persone come tutte le altre; e anche se la scrittura in questo tempo non ci sembra essere una forma d’arte al pari delle altre, è in verità anche in persone come gli scrittori che l’arte si palesa e di questo ciascuno di essi dovrebbe essere orgoglioso, come lo sarebbe un musicista di aver registrato il suo primo pezzo, pure se non viene ascoltato da nessuno.
Bisogna scrivere soprattutto per sé, soltanto infine per piacere agli altri, per non scadere in quella banalità dell’arte che nasce, inesorabilmente, nel momento in cui il prodotto artistico è abbassato al livello di una qualunque merce; un morbo, questo, che rischia di rosicchiare ogni aspetto della produzione artistica del nostro tempo moderno, così tanto amante dell’arte sulla carta, ma che poi pare affezionato soltanto a ciò che può stringere tra le dita e che, se scintilla, tanto meglio.
Kevin Roma, 5°C LS.SA.M