DE ARTIS UTILITATE (“A cosa serve l’arte?”) 

“Un giovane non sa distinguere ciò che è allegorico da ciò che non lo è, ma le impressioni giovanili restano incancellabili: per questo forse occorre assolutamente far sì che i giovani ascoltino innanzi tutto i racconti inventati per meglio condurli alla virtù.” 

Platone, Repubblica, Frammento 378e


Questa la risposta che Platone mette in bocca a Socrate mentre si rivolge a un certo Adimanto, suo interlocutore, nel secondo libro della Repubblica, uno dei testi fondanti della filosofia occidentale. La discussione, di cui la citazione rappresenta una delle battute conclusive, che aveva coinvolto i due fino ad allora riguardava l’individuazione di eventuali rischi che potessero nascere dal contatto di bambini e giovani con l’arte.  

Platone muove due critiche all’arte, attribuendole due errori principali: la prima critica riguarda la natura stessa dell’arte, che, traendo ispirazione dal mondo sensibile, altro non è che un’imitazione della realtà (non ci soffermeremo sulle digressioni metafisiche, poiché non è questo il luogo), mentre la seconda riguarda la sua utilità, il suo potere e i rischi che una sua cattiva gestione possono portare. Ed è questo ciò di cui vi parlerò oggi: della concezione dell’utilità dell’arte attraverso i secoli.  

Tornando a Platone, dunque, c’è da dire che dava un’enorme importanza all’arte, non solo quella visiva, ma anche al teatro, alla poesia e alla ginnastica. Per lui, infatti, l’arte è uno strumento indispensabile per la formazione di cittadini validi e il più virtuosi possibile. Uso “formazione” non a caso. Secondo il filosofo greco, infatti, l’arte, e in particolar modo la musica intesa come l’arte massima, la più importante, possono realmente plasmare, modellare l’anima di una persona, soprattutto quella dei giovani, che sono molto suscettibili agli stimoli, non essendo ancora completamente formati. Questo, tuttavia, comporta che, se essi vengono esposti alle forme d’arte negative, possono sviluppare delle tendenze pericolose: per esempio, citando ancora l’opera sopraccitata: 

“Allora avremo ragione di eliminare i lamenti degli uomini illustri e di lasciarli alle donne di poco conto e agli uomini vili: in tal modo coloro che porremo alla difesa del nostro territorio si vergogneranno di comportarsi così.” 

Frammento 388a 


o ancora: 

“Se i nostri giovani ascoltassero ininterrottamente simili [lagnose] parole, anziché deriderle e reputarle indecorose, difficilmente le potrebbero stimare indegne e biasimare colui che si lascia scappare una parola o un comportamento del genere; ma al contrario, anche per cose di poco conto, intonerebbero molti lamenti e gemiti, senza vergognarsi né trattenersi.” 

Frammento 388d 


Platone, in particolar modo, se la prende molto con Omero, il quale non raramente rappresenta dèi ed eroi nell’atto di ordire inganni, supplicare, commettere errori, un modello impensabile per un buon difensore dello Stato che Platone stava teorizzando. Ancora, si cita: 

“Ma costoro [i giovani], se debbono essere coraggiosi, non devono forse ascoltare tutti i discorsi atti a renderli il più possibile immuni dal timore della morte? Quando si ritiene che esista l’Ade e che esso sia un luogo spaventoso, pensi che si possa rimanere impavidi dinanzi alla morte e nelle battaglie? Pensi che si possa preferire di morire [con onore] piuttosto che essere sconfitti e cadere in schiavitù? Occorre dunque anche sorvegliare chi tenta di raccontare queste favole, pregandolo di non diffamare l’Ade, perché altrimenti nulla si direbbe di utile per chi sia destinato al mestiere della guerra.” 

Frammento 386a

Questo è un tema che mi sta particolarmente a cuore e che ritengo sia piuttosto importante da trattare qui: infatti, la morte, sebbene la propria mai venga conosciuta direttamente, mentre quella altrui solo raramente, è un tema ricorrente nell’arte, rappresentando essa uno dei momenti più carichi di sentimento con cui l’uomo entri in contatto. Ma, naturalmente, ogni genitore trattiene suo figlio dall’entrare in contatto con simili visioni: per quanto la morte sia parte integrante della vita, se non forse proprio ciò che le dà un senso, si tende a salvaguardare i più piccoli da visioni di morte, sia essa cruenta o meno. Questo è un chiaro retaggio della filosofia di Platone, che così non risulta da noi troppo distante: tendiamo a rifugiare i nostri bambini lontano dalle paure di noi grandi. Se sia giusto o meno negare l’esistenza della morte, tacendo addirittura in sua presenza il suo nome, non so dirlo. Ciò che è certo, è che l’esposizione a stimoli eccessivamente forti dei bambini può provocare dei danni: sovente si sente, con il fare di piccolo avvocato, un giovane dire: “Eh ma ho visto lui che lo faceva…”. A nche questo è una prova di ciò che Platone sosteneva: i bambini tendono a imitare ciò che vedono, in particolare dalle persone che stimano, i genitori, i parenti più anziani; il filosofo ateniese immagina quali disastrosi effetti possa produrre su un bambino l’incontro con un eroe epico (ammesso che a questo punto possa effettivamente chiamarsi “eroe”) che commette atrocità, offese al costume, o che compie uno degli atti più indegni per la mentalità del tempo, antitesi della temperanza, una delle più celebrate virtù della polis platonica: cedere alle passioni in maniera smisurata. Chiaramente, un bambino che si appassiona alla storia di Achille, quando scopre che questi si è rifiutato di combattere lasciando morire i suoi compagni, potrebbe tendere ad imitarlo, portando a compimento un comportamento errato ed egoistico, che quindi esce dai confini del racconto e diventa un pericolo, potenzialmente mortale, per i compagni.  

Oggi, dopo l’avvento di tante correnti artistiche, che con smania indipendentista hanno cominciato a celebrare instancabilmente la libertà dell’artista (perché indubbiamente, non si può definire che “libero” un uomo che attacchi una banana a un muro), condannare l’arte sembra quasi qualcosa di sacrilego, limitarla sarebbe quasi una bestemmia. Ma ritengo, comunque, che l’arte possa avere un’utilità nella vita quotidiana: certo, i più cinici sogliono affermare che un quadro di certo “non salverà un bambino che muore di fame”, tuttavia dimenticano costoro che l’uomo non vive “di solo pane”, ma che deve soddisfare delle necessità anche intangibili, immateriali, come la necessità estetica; e l’arte, senza dubbio, può avvicinarci o allontanarci molto dalla bellezza in sé, portando, nel primo caso, l’animo a un senso di benessere e piacere (questo magari può aiutarci a capire perché si parli di “arte culinaria”) e, nel secondo, verso una riflessione generalmente etica o morale: si pensi alla donna amata da Shakespeare, al quale il drammaturgo inglese dedica un sonetto riferendosi a lei così: 

Lei non ha occhi come il sole ardenti, 
meno rosse le labbra ha del corallo; 
se candida la neve, i suoi seni sono spenti, 
se fili d’oro i riccioli, i suoi scuro metallo. 

Rosse, bianche, screziate, ho visto rose; 
vederle sul suo volto è cosa vana; 
ci sono essenze ben più deliziose 
del profumo che il suo respiro emana. 

Amo che parli, ma ho chiara l’idea 
che la musica ha un suono più soave: 
non vidi mai incedere di dea, 
e la mia donna passi in terra muove: 

ma la mia donna è rara, ha altrettanti doni 
quanto quella esaltata con falsi paragoni.  

William Shakespeare, Sonetti, CXXX 


Qui, l’intenzione di Shakespeare non è di certo quella di denigrare la sua amata (poiché sarebbe una strana via di amare altrimenti, la sua), ma quella di far riflettere i lettori riguardo l’esaltazione eccessiva che i poeti a lui contemporanei, a lui precedenti e a lui successivi, proponevano, avevano proposto e avrebbero continuato a proporre, riguardo la figura femminile di cui si dicevano innamorati: a forza di continue lusinghe, infatti, quella di paragonare la donna a una dea era diventato quasi un vizio dei poeti, soprattutto italiani e provenzali, che sembrava quasi facessero a gara a chi riusciva a far apparire più “divina” la donna di cui si era innamorato. Shakespeare ci propone una donna che non ha nulla di speciale, di angelico, ma che, inserita in un contesto poetico, addirittura in un sonetto, risulta essere quasi brutta: così allontanandoci dall’idea comune che allora si aveva della bellezza (un essere divino, quasi imperturbabile), che ancora può riscontrarsi talvolta oggi, ci porta a riflettere addirittura sul senso del nostro amore, portandoci a chiederci: “Di cosa sono innamorato? Del mio amato o della mia idea di lui?”.  


Se da sempre l’arte ci attrae in qualche modo, se il suo richiamo riempie i musei fino all’orlo, se da sempre è oggetto di studio, è perché l’uomo ne è in qualche modo attratto, ma non solo: il fatto che l’uomo continui non solo ad amare e assistere all’arte, ma che continui addirittura a produrla, indica che l’uomo ha una propensione naturale verso di essa, e così non v’è nulla di differente tra il bambino che ricerca il cibo come sostentamento per vivere e l’attrazione, la fame naturale quanto la precedente, da cui l’uomo è spinto verso la bellezza. L’arte può essere considerata “il cibo della mente”, la ricerca della bellezza, la sua fame. Essa risponde a due bisogni naturali, importanti quanto quelli vitali (il cui soddisfacimento rende la vita possibile), se non di più (poiché il loro soddisfacimento rende la vita piacevole, degna di essere vissuta), due bisogni naturali che da sempre hanno mosso le migliori menti, a cui ci avvicina la vicinanza o la lontananza dal bello: la necessità estetica e la necessità di riflettere.  

Ma di questo, parleremo un’altra volta.  

Kevin Roma, 4°C LS.SA