La bellezza in due sonetti di Petrarca – De artis amoenitate 

Giorgio Vasari, “Ritratto di sei poeti toscani“, olio su tela, 1544


Da F. Petrarca, Rerum Vulgarium Fragmenta 
 

CLVI 

 
I’ vidi in terra angelici costumi 
et celesti bellezze al mondo sole, 
tal che di rimembrar mi giova et dole, 
ché quant’io miro par sogni, ombre et fumi;  
 
et vidi lagrimar que’ duo bei lumi, 
ch’àn fatto mille volte invidia al sole; 
et udi’ sospirando dir parole 
che farian gire i monti et stare i fiumi.  
 
Amor, Senno, Valor, Pietate, et Doglia 
facean piangendo un piú dolce concento 
d’ogni altro che nel mondo udir si soglia;  
 
ed era il cielo a l’armonia sí intento 
che non se vedea in ramo mover foglia, 
tanta dolcezza avea pien l’aere e ’l vento  

CLIX 

 
In qual parte del ciel, in quale idea 
era l’exempio, onde Natura tolse 
quel bel viso leggiadro, in ch’ella volse 
mostrar qua giú quanto lassú potea?  
 
Qual ninpha in fonti, in selve mai qual dea, 
chiome d’oro sí fino a l’aura sciolse? 
quando un cor tante in sé vertuti accolse? 
benché la somma è di mia morte rea.  
 
Per divina bellezza indarno mira, 
chi gli occhi de costei già mai non vide, 
come soavemente ella gli gira;  
 
non sa come Amor sana, et come ancide, 
chi non sa come dolce ella sospira, 
et come dolce parla, et dolce ride. 

Mi sono imbattuto in entrambi questi sonetti poco meno di un anno fa, quando ancora ardeva nel mio cuore un amore, un’ammirazione per le forme e per lo stile del mio Grande Trecentista preferito.  
La bellezza, grande protagonista di questo articolo, è di certo un piacere; pertanto, al fine di renderne almeno piacevole la lettura, non vi imporrò lunghe parafrasi per comprendere meglio queste poesie: per quel che ne so, Petrarca scriveva in italiano, confido che siamo tutti in grado di ricavare qualcosa dai suoi sonetti senza passare per l’esoso dispendio di energie utili a parafrasare.
Badate bene, comprendere un’opera d’arte (con + prendere, “prendere con sé”, per i memori delle etimologie) è differente dall’analizzarla, processo ben più limitante rispetto a prima (ἀνά + λύω, “sciogliere, scomporre”). Infatti, portare con sé il significato di un’opera consegue l’esserne stato prima colpito, poi illuminato e infine segnato; al contrario, l’analisi non è che un lavoro meccanico, opposto a ogni sentimento, opposto anche allo scopo stesso dell’arte che non vuol essere oggetto di uno studio matematico, non vuol essere chiusa in categorie, ma solo trasmettere, toccare gli animi.  
Così, dico, si può comprendere i sonetti di cui sopra senza obbligatoriamente capire il senso di ogni parola, di ogni frase; è come se ogni artista ci affidasse le opere che produce, alle quali noi giungiamo carichi di una moltitudine di ricordi, conoscenze, storie, che diventano la chiave per leggerle: così, per chi riporta alla mente Platone, quell’ “In qual parte del ciel, in quale idea” suonerà in modo diverso che per coloro i quali non abbiano mai sentito parlare del filosofo di Atene. E così, ad ognuno di noi, le opere d’arte concedono una riflessione unica, che è impossibile, a causa dell’unicità necessaria della nostra palette di reminiscenze personali, anche comunicare, trasferire interamente ad altri. Pertanto, sarebbe deleterio mettermi qui a commentare questa poesia, tanto quanto sarebbe noioso parafrasarla.  
Il mio obiettivo sarà, invece, aiutarvi a prendere con voi un significato, qualunque esso sia, non solo in queste opere, ma anche in quelle future. E, essendo concentrato questo articolo sulla bellezza, prenderò in esame, del primo sonetto, solo le prime due strofe, mentre del secondo le ultime due, lasciando la comprensione del resto ad libidinem lectoris.  
 
Nel primo sonetto che vi è proposto, possiamo apprezzare particolarmente un Petrarca che tenta di riportarci con il racconto al momento in cui vede in terra delle bellezze che, per la loro magnificenza, non riesce a credere appartengano al mondo (che infatti ritiene “celesti”), il cui ricordo gli porta sia gioia sia dolore (gioco antitetico su cui ritornerà, in seguito, nel sonetto sottostante, nel verso 12, con l’immagine di un Amore che cura e ferisce). Due di queste bellezze, che lo sconvolgono, consistono l’una nel lacrimare di due occhi (che presupponiamo appartenere alla donna che ama, anche se non ne abbiamo certezza) che dice siano così belli da mettere in ombra la bellezza del sole, l’altra nell’aver sentito sussurrare parole tali da fargli vedere muoversi i monti e fermarsi i fiumi. Ed è questo il valore ultimo della bellezza (artistica o non), quello di far apparire possibili le cose impossibili, guidare la nostra mente a creare, con la fantasia, altre cose belle: pensieri e opere d’arte; il fine ultimo della bellezza, potremmo dire, è autoreplicarsi.  
In De artis utilitate avevamo parlato di due necessità che l’uomo tende a soddisfare: quella estetica, soddisfatta con la vicinanza al bello, e quella di riflettere, soddisfacibile allontanandosi dal bello. Per soddisfare il suo bisogno di bello, l’uomo, ci dice Petrarca, si guarda intorno per trovare la bellezza (anche se da buon innamorato ci dice che lo fa “indarno”, invano, chi non abbia visto la sua donna), nello stesso modo in cui un uomo affamato cerca il cibo.  
Infine, e mi piace molto parlare di autoreplicazione della bellezza, mi resta da fare ancora un’osservazione sull’ultimo verso del secondo sonetto, alla quale fui guidato a suo tempo da una nota a piè di pagina. La critica, infatti, suppone che la sequenza “dolce parla, et dolce ride” non sia una pura invenzione petrarchiana. Scriveva infatti Orazio, poeta latino morto nell’8 a.C.: “dulce ridentem Lalagem amabo, dulce loquentem.”, la cui traduzione letterale sarebbe: “amerò Lalage, che dolcemente ride e dolcemente parla”.  
 
Cos’è dunque la bellezza?  
La bellezza è il cibo di cui nutriamo, non la nostra fisicità, ma il nostro intimo, il nostro piacere; è lo stimolo a coltivare l’arte, dimora e veicolo della bellezza; è ciò che ci permea e ci infetta, nell’animo e nelle azioni, che ci trasforma, al pari del più forte dei virus, in macchine con le quali riproduce altri esemplari di se stessa. La bellezza ci appaga, non importa dove la troviamo: la sua distanza ci è utile, ma non possiamo sopravviverne per sempre lontani; la bellezza ci prende, ci fa immaginare, creare, realtà impossibili.  
Il tutto con la dura consapevolezza che “quant’io miro par sogni, ombre et fumi”, ovvero che ciò che la bellezza crea in noi, non sia che un sogno, un’ombra, non sia che fumo, una visione sì piacevole ma così intangibile, una realtà così fragile. Ed ecco che tra tutti gli uomini si distinguono gli artisti: coloro che, afferrata la bellezza a mani salde, non possono permettersi di lasciarla scappare: è il terrore del tempo, la temporaneità non solo della bellezza, ma anche della memoria umana; l’artista è prima di tutto un uomo spaventato, terrorizzato dall’idea di perdere un giorno il ricordo della bellezza che tanto lo fa emozionare.  Quindi crea, modella, dipinge o scrive i più bei ventotto versi che mai mi sia capitato di leggere.  
 

Kevin Roma, IV C LSSAM